Le città - in Europa e non solo - non nascono sostenibili, almeno in senso contemporaneo. Soprattutto per concentrazioni urbane importanti, frutto di un percorso stratificato di crescita urbanistica e sociale, il processo di riorganizzazione, ristrutturazione e ripensamento in chiave green risulta dunque complesso e tutt’altro che veloce.
Si fa presto a dire green, perché la consapevolezza maturata negli ultimi anni rispetto alla sostenibilità anche in architettura ha dato una spinta significativa al rinnovamento di metodologia e tecniche costruttive. Chiave di volta, il risparmio energetico. Se poi questo si coniuga con un ridotto impatto ambientale (anche estetico) e gioco è fatto. Quali sono allora le best practice di riferimento?
Sul tetto di un edificio nel Brooklyn Navy Yard c’è un vigneto. Rooftop Reds è infatti un’azienda vinicola che coltiva le viti sul tetto di un grattacielo, grazie alla tecnica di allevamento applicata da Devin Shomaker e dal suo team in collaborazione con la Cornell University.
Ci hanno abituati a immaginare un pianeta fatto di grandi foreste come polmoni naturali, capaci di assorbire CO2 e rilasciare una riserva di ossigeno in atmosfera, e in contrasto aree urbanizzate “programmate” per emettere CO2 e dunque per inquinare il pianeta, incidendo sull’effetto serra. E se invece potessimo immaginare città con una carbon footprint negativa?
Se l’approccio strutturale è stato da sempre essenziale per lo sviluppo dell’architettura - che gli edifici dovessero essere funzionali è una delle basi della progettazione fin dall’antichità - si è visto spesso qualche eccesso che poco considerava un elemento cruciale: gli edifici quasi sempre accolgono umani.
L’evoluzione nei materiali per le costruzioni rappresenta un’opportunità clamorosa quando si considera la proliferazione di nanofibre e nanotubi come base per lo sviluppo di caratteristiche peculiari. E in particolare l’attenzione alle performance utili ad una evoluzione più sostenibile della progettazione è crescente.